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09.1_20.00 Spaghetti Story

















Un film di Ciro De Caro. Con Valerio Di Benedetto, Cristian Di Sante, Sara Tosti, Rossella d’Andrea, Deng Xueying, Tsang Wei Min  Commedia, durata 83 min. – Italia 2013  - Distribuzione Indipendente.
Film coraggioso e indipendente: un ottimo esordio
Valerio è un aspirante attore ventinovenne che non riesce a sbarcare il lunario e nei momenti di sconforto fissa il suo trenino elettrico. L'amico d'infanzia Christian è un pusher (ma lui precisa: "rivenditore al dettaglio") che fa affari con la mala cinese. Valerio vive con Serena, che persegue un dottorato grazie ad una borsa di studio e comincia a sentir ticchettare l'orologio biologico. Christian invece vive con la nonna che ha visioni della Madonna e aggredisce chiunque entri in casa. Infine Giovanna, sorella di Valerio, fa la fisioterapista e mantiene il fratello, invitandolo ripetutamente a crescere e a prendersi le sue responsabilità nei confronti di Serena. Cosa che, a modo suo, fa anche il pragmatico Christian, convinto che le donne non vadano capite ma protette.
Nel panorama della commedia italiana contemporanea, in cui hanno la meglio (produttivamente e distributivamente parlando) le messinscene paratelevisive popolate da giovani gaudenti e senza un problema al mondo, l'esordiente trentenne Ciro De Caro racconta il mondo dei suoi coetanei in modo totalmente realistico, a cominciare dai dettagli di ambiente e dalla descrizione della realtà (non) lavorativa dei giovani.
De Caro descrive con precisione anatomica il mix di umiliazione e apatia che la crisi economica genera nella sua generazione, e che ha per corollario l'immobilismo sognatore (Valerio) o il pragmatismo bieco (Christian), nessuno dei due intrinseco alla personalità del singolo, ma conseguenza di una situazione surreale e straniante per tutto un Paese. Perché Valerio e Christian, come Serena e Giovanna, sono persone perbene che reagiscono come possono all'iniquità delle loro circostanze.
La cura che De Caro mette nella messinscena non è solo nella scrittura ma anche nelle scelte di ambientazione, nelle inquadrature sempre ingombre e spesso bloccate alla vista, nell'attenzione alle luci (anche quelle naturali), nell'utilizzo del fuori fuoco, e in un montaggio creativo e brusco che velocizza la narrazione o, in alternativa, simula il tempo intercorso senza riprodurne la noia (e la fatica produttiva). Ad aiutare il regista-sceneggiatore nella costruzione di una commedia autentica e autenticamente divertente (si ride davvero qui, e amaro, come nella miglior tradizione italiana) è un cast perfetto capitanato da Valerio Di Benedetto e Christian Di Sante che hanno tempi comici impeccabili, l'uno nelle vesti di prim'attore, l'altro in quelle di caratterista, entrambi uniti dalla capacità di inserire al momento giusto una dose di umanità riconoscibile nei rispettivi personaggi. Perfette anche Sara Tosti e Rossella D'Andrea, che del film è cosceneggiatrice: e si sente, perché Spaghetti Story ha il pregio di raccontare le donne di oggi in modo altrettanto credibile degli uomini, cosa ancor più rara nel cinema italiano contemporaneo. Il che permette di gettare luce su quella che è la dimensione veramente originale di questa commedia: il racconto di come la crisi economica metta alla prova la virilità di maschi catapultati fuori dal loro ruolo di capofamiglia, mentre le loro donne - nonne, sorelle, fidanzate - si rimboccano le maniche con concretezza tutta femminile e fanno ciò che serve per portare avanti un progetto di vita, e magari anche di famiglia. 
Nessuno in Spaghetti Story ha totalmente ragione perché tutti procedono a tentoni, il che riflette esattamente la situazione della maggior parte degli italiani di fronte alla crisi. Ma l'età dei protagonisti rende più drammatico il loro vagare senza prospettive, perché, come ricorda Valerio, "mio padre a 29 anni aveva già due figli e un lavoro sicuro". 

16.1_20.00 I diari della motocicletta



















Un film di Walter Salles. Con Gael García Bernal,  Mercedes Morán, Jean Pierre Noher, Mia Maestro, Rodrigo De la Serna, Susana Lanteri, Marina Glezer, Lucas Oro, Sofia Bertolotto, Franco Solazzi, Ricardo Díaz Mourelle, Sergio Boris, Daniel Cargieman, Diego Giorzi, Facundo Espinosa, Matias Gomez, Diego Treu, Carlos RivKin, Erto Pantoja, Brandon Cruz, Gustavo Bueno, Antonella Costa. Titolo originale Diarios de motocicleta. Avventuradurata 126 min. - Argentina, Brasile, Cile, Perù, USA 2004



Viaggio fisico e morale senza moralismi 

1952. Due giovani studenti universitari, Alberto Granado ed Ernesto Guevara partono per un viaggio in moto che li deve portare ad attraversare diversi paesi del continente latinoamericano. Quella che doveva essere un'avventura giovanile si trasforma progressivamente nella presa di coscienza della condizione di indigenza in cui versa gran parte della popolazione. Quel viaggio cambierà nel profondo i due uomini. Uno di loro diventerà il mitico "Che" mentre l'altro, ancora vivente, è medico a Cuba. Uno degli applausi più lunghi alla proiezione stampa di Cannes 2004. Perché tutti i giornalisti presenti sono 'comunisti'? Sicuramente no. Perché credono che Castro sia solo un benefattore dell'umanità? Ancora una volta la risposta è no. Allora perché? Perché di fronte a un cinema o sempre più plastificato o sempre più povero di idee, un film che propone la gioventù come 'luogo' in cui scoprire dei valori personali e decidere di impegnarsi per degli ideali, risponde a un bisogno profondo. Due studenti che non si fanno di droga, che non rubano, che non scopano ogni ragazza che incontrano ma che si mettono in viaggio come spericolati turisti e si trovano alla fine 'uomini' perché cambiati dentro fanno pensare che l'utopia (pur con tutte le sue possibili distorsioni nel momento in cui entra in gioco il potere) non può morire. Una bella lezione 'morale' senza moralismi né agiografie.
23.1_20.00 Red Krokodil















Un film di Domiziano Cristopharo Con Valerio Cassa, Simone Destrero. Viktor Karam, Brock Madson. Drammatico, durata 82 min. - Italia, USA 2012. - Distribuzione Indipendente
La tragica realtà delle droghe pesanti

La storia di un uomo dipendente dal Krokodil (una delle droghe sintetiche più pericolose e distruttive in commercio) che si ritrova improvvisamente solo, in una città post nucleare simile a Chernobyl, il cui disfacimento fisico provocato dalla massiccia assunzione di droga si sviluppa parallelamente a quello interiore, così come la realtà si mescola prepotentemente alle sue allucinazioni. Il risultato è un film che utilizza il Krokodil come vera e propria metafora di distruzione.
30.1_20.00 Cesare deve morire








Un film di Paolo Taviani, Vittorio Taviani. Con Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca, Juan Dario Bonetti, Vincenzo Gallo, Rosario Majorana, Francesco De Masi, Gennaro Solito, Vittorio Parrella, Pasquale Crapetti, Francesco Carusone, Fabio Rizzuto, Fbio Cavalli, Maurilio Giaffreda Docu-fiction- Italia 2012. - Sacher 
Shakespeare entra in carcere e ancora una volta si fa nostro contemporaneo

Nel teatro all'interno del carcere romano di Rebibbia si conclude la rappresentazione del "Giulio Cesare" di Shakespeare. I detenuti/attori fanno rientro nelle loro celle. Sei mesi prima: il direttore del carcere espone il progetto teatrale dell'anno ai detenuti che intendono partecipare. Seguono i provini nel corso dei quali si chiede ad ogni aspirante attore di declinare le proprie generalità con due modalità emotive diverse. Completata la selezione si procede con l'assegnazione dei ruoli chiedendo ad ognuno di imparare la parte nel proprio dialetto di origine. Progressivamente il "Giulio Cesare" shakesperiano prende corpo.
I fratelli Taviani erano certamente consapevoli delle numerose testimonianze, in gran parte documentaristiche, che anche in Italia hanno mostrato a chi non ha mai messo piede in un carcere come il teatro rappresenti un strumento principe per il percorso di reinserimento del detenuto. Quando poi si pensa a una fusione di fiction e documentario la mente va al piuttosto recente e sicuramente riuscito film di Davide Ferrario Tutta colpa di Giuda . I Taviani scelgono la strada del work in progress utilizzando coraggiosamente l'ormai antinaturalistico (e televisivamente poco gradito) bianco e nero. L'originalità della loro ricerca sta nella cifra quasi pirandelliana con la quale cercano la verità nella finzione. Questi uomini che mettono la loro faccia e anche la loro fedina penale (sovrascritta sullo schermo) in pubblico si ritrovano, inizialmente in modo inconsapevole, a cercare e infine a trovare se stessi nelle parole del bardo divenute loro più vicine grazie all'uso dell'espressione dialettale. Frasi scritte centinaia di anni fa incidono sul presente nel modo che Jan Kott attribuiva loro nel saggio del 1964 dal titolo "Shakespeare nostro contemporaneo". Ogni detenuto 'sente' e dice le battute come se sgorgassero dal suo intimo così che (ad esempio) Giovanni Arcuri è se stesso e Cesare al contempo e la presenza del regista Cavalli e dell'ex detenuto e ora attore Striano nel ruolo di Bruto non stonano nel contesto. Ciò che purtroppo diventa dissonante (anche se non inficia alle radici il valore dell'operazione) è la pretesa di far 'dire di sé' ai detenuti. Nei momenti in cui dovrebbero uscire dalla parte per rientrare in se stessi si avverte che è proprio allora che stanno recitando un copione che parla delle loro tensioni o delle loro attese. La ricerca della verità nella finzione si trasforma in finzione che pretende di palesare delle verità. Non era necessario. Shakespeare aveva già splendidamente ottenuto il risultato.
06.2_20.00 Ti do i miei occhi















Un film di Icíar Bollaín. Con Luis Tosar, Laja Marull, Candela Peňa, Rosa María Sardá  Titolo originale Te doy mis ojos. Drannatico, durata 109' min. – Spagna 2003.
Un film che affronta il tema della violenza domestica sulle donne

Perché una donna resta per dieci anni con un uomo fisicamente e psicologicamente violento? A Toledo la bella Pilar, spinta dalla paura, fugge da casa e dal marito Antonio col figlio Juan, rifugiandosi dalla sorella, ma qualche tempo dopo, ancora innamorata e fiduciosa nelle sue promesse di ravvedimento, ritorna dal marito. Il secondo distacco sarà definitivo. Scritto con Alicia Luna, il 3° lungometraggio dell'attrice madrilena Bollaín affronta il tema della violenza domestica sulle donne, riuscendo a subordinare i suoi espliciti intenti didattici alla complessità di un dolorante rapporto umano, a un ammirevole scavo psicologico dei personaggi. 7 premi Goya, gli Oscar spagnoli, e la Concha de Plata del Festival di San Sebastian ai due interpreti principali: Marull, fragile e forte con uno splendore che le viene dall'interno, e il sobrio, intenso Tosar che analizza, sfaccettandole, le contraddizioni del suo difficile personaggio.
13.2_20.00 Un sapore di ruggine e ossa















Un film di  Jacques Audiard. Con Marion Cotillard, Matthias Schoenaerts, Armand Verdure, Céline Sallette, Corinne Masiero. Bouli Lanners, Jean-Michel Correia, Mourad Frarema  Titolo originale De rouille et d'os. Drammatico, durata 120 min. - Belgio, Francia 2012. - Bim 
Un film a tinte forti temperato da una scrittura in levare

Nel nord della Francia, Ali si ritrova improvvisamente sulle spalle Sam, il figlio di cinque anni che conosce appena. Senza un tetto né un soldo, i due trovano accoglienza a sud, ad Antibes, in casa della sorella di Alì. Tutto sembra andare subito meglio. Il giovane padre trova un lavoro come buttafuori in una discoteca e, una sera, conosce Stephane, bella e sicura, animatrice di uno spettacolo di orche marine. Una tragedia, però, rovescia presto la loro condizione. 
A partire da alcuni racconti del canadese Craig Davidson, Audiard e Thomas Bidegain, già coppia creativa nel Profeta, traggono un racconto cinematografico a tinte forti, temperate però da una scrittura delle scene tutta in levare. La trama e la regia sono estremamente coerenti nel seguire uno stesso rischiosissimo movimento, che spinge il film verso il melodramma e non solo verso la singola tragica virata del destino ma verso la concatenazione di disgrazie, salvo poi rientrare appena in tempo, addolcire l'impatto della storia con "la ruggine" di un personaggio maschile straordinario, per giunta trovando un appiglio narrativo che tutto giustifica e tutto rilancia. Un equilibrismo che può anche infastidire ma che rende il film teso, malgrado alcune mosse prevedibili. 
Come spesso, nella filmografia di Audiard, corpo e spirito fanno tutt'uno, si ammaccano e si rimarginano insieme, senza bisogno di troppe parole: al contrario, la comunicazione, specie quella femminile, passa attraverso un linguaggio muto ma intimamente comprensivo (qui è Stef che "parla" con l'animale ma anche il "dialogo" sessuale che si approfondisce senza l'uso di parole). 
La macchina da presa del regista non è certo invisibile e le tesi, dietro il suo modo di filmare, sono sempre molto evidenti. Questo film non fa eccezione e anzi spinge più che mai sui contrasti manichei tra bellezza e squallore, forza e debolezza, spirituali e letterali, fin quasi alla maniera. Ma raggiunge un risultato non scontato laddove, pur essendo in realtà un lavoro molto scritto, dove tutto, fin dal primo istante, è pensato per tornare a domandar vendetta, la direzione degli attori e la qualità dei dialoghi ci distraggono magistralmente, facendo sì che non ce ne accorgiamo quasi mai. La capacità del miglior cinema di Audiard di scartarsi da un percorso troppo rigido o incline alla retorica, questa volta non si manifesta né a livello di soggetto né di regia ma si ritrova più sottilmente nelle pieghe della messa in scena, nei gesti e nelle espressioni degli attori.
20.2_20.00 Una domenica notte














Un film di Giuseppe Marco Albano. Con Antonio Andrisani, Francesca Faiella, Ernesto Mahieux, Claudia Zanella, Anna Ferruzzo. Saman Anthony, Adolfo Margiotta, Pietro De Silva, Alfio Sorbello, Rocco Barbaro, Pascal Zullino, Pinuccio Sinisi, Tiziana Schiavarelli, Marit Nissen Commedia durata 90 min. - Italia 2013. - Distribuzione Indipendente.
Dalla Basilicata un ritratto della provincia che riflette la condizione attuale del paese
Antonio Colucci ha quarantasei anni. Circa vent'anni fa ha diretto un film horror che è stato distribuito in video solo in Germania. Ora, divorziato, con un figlio e una nuova compagna che è la sorella della ex moglie, decide di ridare vita all'antico sogno mai sopito. Vuole tornare a girare un film con una sola location (un cimitero) e un solo protagonista. Si intitolerà "L'uomo che uccise la Terra". Per quanto sia concepito con un budget limitato i finanziamenti occorrono. Il problema è trovarli.
Giuseppe Marco Albano e il suo attore protagonista Antonio Andrisani conoscono bene, per esperienza diretta, il mondo dei cineamatori di provincia. La loro scelta di ambientare il film nel Materano (terra assurta a fama cinematografica internazionale grazie a The Passion e Nativity) rafforza la verosimiglianza della storia che conserva i toni della commedia ma non rinuncia a raccontare un microcosmo. L'avvento del digitale ha sicuramente 'democratizzato' l'accesso alla realizzazione di un film ma in tempi di crisi anche somme ridotte sono difficili da reperire. Attorno a questa non semplice ricerca Albano sviluppa il ritratto di una provincia che riflette la condizione attuale del Paese. A partire dalla dimensione familiare ormai frammentata in cui l'amore per la nuova compagna (una Francesca Faiella sempre abile nel tratteggiare le piccole nevrosi del quotidiano) non ha del tutto sostituito la nostalgia per la 'regolarità' del matrimonio. Sono però soprattutto i personaggi minori (a partire dal viticoltore ignorante arricchito fino all'assistente alla regia) ad affollare lo schermo con le loro piccole vicende. Un'attenzione particolare viene poi offerta alle caratterizzazioni da una posa che danno la misura di una sensibilità che dovrebbe potere aver modo di esprimersi ancora nel cinema. Dalla comparsa che guarda in macchina al finanziatore di spot che pretende di far recitare l'appariscente fidanzata per finire poi con la donna del Luna Park su cui fare un'inquadratura 'alla Leone' è un susseguirsi di scelte azzeccate. Su cui spiccano i provini in bianco e nero di figuranti che forse hanno davvero lavorato con Gibson e per Nativity. La sintesi con cui vengono rappresentati fa pensare a una lezione di Ciprì e Maresco ben metabolizzata.
27.2_20.00 Oltre le colline














Un film di Cristian Mungiu. Con Cosmina Stratan, Cristina Flutur, Valeriu Andriuta, Dana Tapalaga, Catalina Harabagiu. Gina Tandura, Doru Ana, Luminita Gheorghiu, Liliana Mocanu, Vica Agache, Nora Covali, Dionisie Vitcu, Ionut Ghinea, Costache Babii, Alina Berzunteanu  Titolo originale Dupa dealuri. Drammatico, durata 155 min. - Romania 2012. - Bim .

Mungiu racconta le conseguenze di una scelta in un evento cinematografico che lascia parlare i fatti 

Voichita e Alina sono cresciute insieme in orfanotrofio fino alla maggiore età. Successivamente, la prima è stata accolta nel monastero locale mentre la seconda è stata affidata ad una famiglia adottiva, dalla quale è scappata per andare in Germania. Ora Alina torna per portare via con sé anche l'amica, l'unica persona che abbia mai amato e da cui sia mai stata amata. Ma Voichita non è certa di voler lasciare la comunità religiosa. Intanto l'irrequietezza di Alina porta il prete e le sorelle a credere che sia malata o indemoniata. 
Oltre le colline è prima di ogni altra cosa una storia d'amore, ed è da qui che il film trae la sua potenza. Un amore soffocato dalle regole imposte dal luogo che in una delle ragazze, l' "estranea", emerge drammaticamente e istericamente, come ogni sentimento forte rigidamente represso. 
Il regista è partito da un fatto avvenuto in un convento sperduto della Moldavia, nel quale una ragazza ha trovato la morte in seguito ad un esorcismo, e ha trasformato la cronaca dell'evento in evento cinematografico, (ri)aprendo grazie agli strumenti del cinema ciò che la Storia aveva chiuso. Lo fa mantenendo lo stile della cronaca, ma entrando in essa in profondità, fino a farne un racconto seguendo il quale sentiamo il passare dei giorni, delle ore, dei minuti.
Come, appunto, in Quattro mesi, tre settimane, due giorni, Mungiu si focalizza ancora su due protagoniste femminili, fra le quali s'inseriscono un uomo e la sua autorità, ma il confronto si ferma qui. Oltre le colline, per la scrittura del quale il regista si è rifatto alle ricerche romanzate di Tatiana Niculescu Bran, interroga principalmente le conseguenze di una scelta, senza mancare di illuminare quanto ristretto possa essere lo spazio del libero arbitrio quando il peso della storia culturale e famigliare di una persona è così grande. La critica all'ideologia religiosa nei suoi estremi di cecità e ignoranza è evidente, ma il regista, con intelligenza, lascia parlare i fatti ed evita di trasformare il racconto in una ricerca di colpe e colpevoli, così come evita, a livello filmico, i toni del sensazionale o del melodrammatico. 
Splendidamente fotografato, tanto negli esterni che negli interni da Oleg Mutu, il film sembra non parlare per forza o solamente della terra del regista, come è accaduto molto spesso fino ad ora nei titoli della nouvelle vague romena, ma fa questo e altro, parla del locale e dell'universale, scegliendo e orchestrando un dramma in cui si assommano pericolosamente l'incompetenza, il rifiuto della responsabilità e gli svantaggi biografici.

06.3_20.00 La sorgente dell'amore














Un film di Radu Mihaileanu. Con Leïla Bekhti, Hafsia Herzi, Biyouna, Sabrina Ouazani, Saleh Bakri, Hiam Abbass, Mohamed Majd, Amal Atrach  Titolo originale La source des femmes. Drammaticodurata 125 min. - Belgio, Italia, Francia 2011. - Bim 

Da una commedia classica dell'antica Grecia, uno spettacolo contro tutti gli integralismi
 
La vicenda si svolge ai giorni nostri in un piccolo villaggio situato da qualche parte tra Nord Africa e Medio Oriente. Tutti i giorni le donne debbono compiere un accidentato percorso in salita per andare a prendere l'acqua da una sorgente. Molte di loro hanno perso dei figli che portavano in ventre sottoponendosi a questo duro sforzo. Gli uomini stanno da sempre a guardare e nessuno di loro si è mai dato da fare per far sì che i soldi che arrivano dalle visite dei turisti vengano investiti nella realizzazione di un piccolo acquedotto. Un giorno Leila, giovane sposa venuta dal Sud, decide di non sopportare più questa situazione. Insieme a una delle donne più anziane del villaggio e opponendosi all'ostilità della suocera prova a convincere le donne ad attuare uno sciopero del sesso che dovrà protrarsi sino a quando gli uomini non porranno rimedio alla situazione.
Radu Mihailehanu dopo il treno dei possibili deportati in fuga (Train de vie), la vita non facile di un finto falascià in Israele (Vai e vivrai) e la polifonica irruzione a Parigi dei musicisti russi (Il concerto) affronta il tema dei rapporti uomo/donna nel mondo islamico. Lo fa ammantandolo con l'ottica del racconto di fantasia e partendo da uno spunto da commedia classica dell'antica Grecia: lo sciopero del sesso. Ma non aspettatevi i toni da commedia di almeno due dei film precedenti. Ci sono ma sono minoritari rispetto al bisogno di battersi (ancora una volta per il suo cinema) con senso dello spettacolo contro tutti gli integralismi.
Le sue donne non sono contro gli uomini in quanto tali ma combattono il loro essersi ridotti, per machismo, per vittimismo o per pigrizia mentale allo stereotipo negativo del maschio mediterraneo. La figura di Leila (che trova nell'anziana madre di un Imam tanto giovane quanto integralista una convinta e brillante alleata) emerge. È colei che viene da fuori, colei che la suocera contrasta perché ha il coraggio di gesti che la madre di suo marito non ha mai avuto il coraggio di compiere. 
È un piccolo mondo quello che Mihaileanu ci racconta. Ma il suo cinema, che non punta al capolavoro quanto piuttosto a un solido rapporto con il pubblico, trova in sé la forza dell'apologo discreto che ricorda a tutti (non solo ai musulmani) che le Scritture predicano qualcosa di ben diverso dalla sottomissione della donna. Predicano l'amore e il rispetto reciproci.

13.3_20.00 Là-bas














Un film di Guido Lombardi con Kader Alassane, Moussa Mone, Esther Elisha, Billy Serigne Faye, Alassane Doulougou, Fatima Traore, Salvatore Ruocco. Drammatico 100 min. Italia 2011 Cinecittà Luce
Romanzo criminale a Castelvolturno dal punto di vista dell'immigrazione  

 Yssouf è un giovane ragazzo africano con un animo da artista in cerca del denaro necessario ad acquistare un costoso macchinario con cui produrre le sue opere d'arte. Appena giunto a Napoli, trova ospitalità presso una comunità di immigrati accampata in una piccola villa a Castelvolturno, detta la Casa delle Candele perché molto spesso salta la luce. Mentre gli altri inquilini si guadagnano da vivere vendendo fazzoletti ai semafori o suonando musica per strada, Yssouf si rivolge a suo zio Moses, un potente boss del traffico di cocaina sul territorio. Questi dapprima gli trova un lavoro in un autolavaggio alle dipendenze di un padrone sfruttatore, poi lo coinvolge nello spaccio di droga per permettergli di guadagnare più soldi più in fretta.In francese, là-bas significa lì, laggiù, e indica la distanza che ci separa da qualcosa. Per molti africani è la parola con cui identifica la lontananza dall'Europa e dalle sue prospettive. Per il regista napoletano Guido Lombardi diviene un termine chiave con cui rovesciare l'ordinaria prospettiva sulla distanza che separa gli italiani dagli immigrati. Partendo dalla strage di Castelvolturno avvenuta nel settembre 2008, in cui il Clan dei Casalesi uccise sei giovani clandestini come atto deliberato di violenza razziale e monito sul controllo dei traffici illegali legati al territorio, Lombardi concepisce un racconto di educazione criminale dove il punto di vista è unicamente quello dell'immigrato. Non proprio un film sull'immigrazione, quindi, e nemmeno un'inchiesta sulla camorra, quanto il più classico dei racconti di educazione criminale in cui la realtà della camorra e delle comunità africane di Castelvolturno spinge dall'esterno su una solida drammaturgia. Come negli episodi di Gomorra di Roberto Saviano, la sostanza dell'inchiesta e la prova del documento incontrano la forma della narrazione classica e la creazione di personaggi avvincenti e complessi, con cui condividere i dissidi interiori e i dubbi morali, il respiro tragico e la redenzione finale. È in questo senso, infatti, che il regista napoletano configura l'identità del personaggio attraverso un gioco di vicinanze e lontananze, divari visibili e invisibili fra storia e finzione. Così, mentre la distanza geografica e linguistica si acuisce nel momento in cui l'italiano diventa la vera lingua straniera in questa storia - lingua marginale parlata giusto da qualche camorrista - quella culturale si assottiglia attraverso la potenza universale della tragedia classica. L'idea di restare ancorati a Yssouf e di muoversi unicamente all'interno della comunità africana con cui lui si scontra e si confronta, permette così al film di mantenere un ideale pedagogico, di farsi sguardo indagatore e analitico sulla quotidianità dell'immigrazione, senza diventare una lezione retorica sull'accoglienza o uno spot contro il razzismo.

20.3_20.00 La quinta stagione
















Un film di Peter Brosens, Jessica Woodworth. Con Aurélia PoirierDjango SchrevensSam LouwyckGill VancompernollePeter Van den BeginBruno GeorisNathalie Laroche Titolo originale La cinquième saison. Drammatico, durata 93 min. - Belgio, Paesi Bassi, Francia 2012. - Nomad Film

Un'allegoria visivamente originale sulla libertà, nella terra di Bruegel 

Un misteriosa calamità colpisce un paesino delle Ardenne: l'inverno non se ne vuole andare e il ciclo della natura ne è presto sconvolto. I bambini Alice e Thomas, trovando riparo sotto l'ala dell'adulto Pol, un apicoltore itinerante con un figlio disabile, lottano per dare un senso alla vita, mentre attorno ogni gioia si spegne. Così facendo, però, suscitano la rabbia e l'invidia del resto degli abitanti. 
Dopo aver girato in Mongolia e Perù, Peter Brosens e Jessica Woodworth scelgono la loro terra, il Belgio, per raccontare la storia di una crisi, umana e sistemica. Una storia ambientata in un futuro troppo vicino, dove un venditore di fiori porta ancora, fino ad un certo punto, un residuo e di colore e di profumo, ma la terra si è ormai fatta sterile e - quando anche l'ultimo barlume d'innocenza, rappresentato dai bambini - viene corrotto e ridotto al silenzio, la violenza è destinata ad esplodere e l'avidità a trasformare gli uomini in creature mostruose che si proteggono l'un l'altro, omertosi, facendo(si) massa. 
Anche se il genere è fantapolitico, e dunque astratto, vien da pensare che l'ambientazione non sia in realtà scelta per pura comodità o esclusive ragioni di budget, perché il Belgio è storicamente tutt'altro che una terra neutrale in materia di convivenza tra persone e culture diverse, di accoglienza ma anche xenofobia. Meravigliosamente fotografato da Hans Bruch Jr., che toglie i colori strada facendo, il film ricorda un po' l'esordio del nostro Frammartino, un po' Bruegel e Bosch, e molto "Io sono Febbraio", fiaba per adulti firmata Shane Jones (ne ha acquisito i diritti cinematografici Spike Jonze), con la quale condivide la premessa e alcune immagini (la maschera), ma non l'epilogo. Sono ispirazioni e nulla più, fors'anche inconsapevoli, perché il film trova in realtà la sua forza d'impatto in una forma visiva originale, tutt'altro che esplorata, che risponde all'allegoria sulla libertà del piano narrativo con un piano visivo altrettanto simbolico e cerebrale. 
Dalla pittura degli illustri conterranei, gli autori riprendono però di certo la meditazione sulla vita rurale, l'idea di una deformazione fisica di ciò che sfugge la morale,e persino un senso del sacro tra i profani, che inscrive la figura di Pol e l'iconografia a lui associata, in quella tradizionale del martire.

27.3_20.00 I fratelli Karamazov














Un film di Petr Zelenka. Con Ivan Trojan, Radek Holub, Igor Chmela, David Novotný, Michaela Badinková. Jerzy Michal Bozyk, Malgorzata Galkowska, Lenka Krobotová, Klára Lidová, Roman Luknár, Andrzej Mastalerz, Marek Matejka, Martin Mysicka, Jerzy Rogalski, Pavel Simcík, Lucie Zácková. Titolo originale Karamazovi. Drammatico, durata 110 min. - Repubblica ceca 2008. - Distribuzione Indipendente 

Rappresentare Dostoevskij, tra finzione e realtà

Un gruppo di attori si ritrova in una fabbrica abbandonata per effettuare le prove di uno spettacolo: l'adattamento teatrale de "I fratelli Karamazov" di Fëdor Dostoevskij, che andrà in concorso a un festival di teatro alternativo. Le prove hanno inizio: al crescendo emotivo dei personaggi si affiancano questioni come la fede, l'immortalità e la salvezza dell'anima, ma anche e soprattutto il dipanarsi dei rapporti all'interno della troupe stessa, che vanno a riflettere i grandi temi dell'opera di Dostoevskij. Finzione e realtà finiscono col sovrapporsi, e il dramma scivola via dalla carta al mondo reale. Un film straordinario che metterà a confronto il cuore, l'anima e la mente...


03.4_20.00 La sposa promessa














Un film di Rama Burshtein. Con Hadas Yaron, Yiftach Klein, Irit Sheleg, Chayim Sharir, Razia Israeli. Hila Feldman, Renana Raz, Ido Samuel Titolo originale Lemale Et Ha'Chalal. Drammatico, durata 90 min. - Israele 2012. - Lucky Red
Un film d'amore, un'opera prima caratterizzata da forti scelte di  regia 


Shira ha 18 anni, è figlia di un rabbino della comunità ortodossa di Tel Aviv e sorella minore di Esther, che attende un figlio dal marito Yochai. L'interesse di Shira si rivolge per la prima volta verso un coetaneo, che la famiglia le ha proposto come possibile fidanzato, ma la morte di Esther per parto allontana ogni decisione. Solo con il neonato, di cui si occupano con amore Shira e la sua famiglia, Yochay viene invitato a risposarsi presto. La prospettiva che possa andarsene con il nipotino in Belgio, spinge la moglie del rabbino a proporgli di prendere in moglie proprio Shira. Sta alla ragazza accettare o meno questa difficile proposta.
Opera prima di Rama Burshtein, Fill the void è un esordio a cui tributare un benvenuto sentito e meritato, per la coerenza delle scelte forti di regia e l'emozione che scorre in esso, dapprima sottile come un ruscello poi sempre più simile ad un fiume in piena, che non straripa però dagli argini di una forma stretta, rigida e adottata volontariamente. Esattamente com'è per il sentimento amoroso tra un uomo e una donna nella comunità in cui si ambienta il film, regolata da riti e precetti il cui rispetto formale è inteso in tutto e per tutto come sostanziale, e all'interno dei quali una libertà non lesiva è possibile, ma va ricercata e non è sempre facile.
È di questo spazio ristretto al massimo, di cui gli interni delle case non sono che un riflesso, uno strumento, che tratta il film della Burshtein: la storia di una scelta che viene dall'alto e si trasforma in una scelta del cuore. O, come probabilmente direbbe uno di loro, la scelta di una corrispondenza rinvenuta dove era già presente anche se sembrava impossibile. Dall'esterno, si può comprendere o meno, accettare o meno, ma la forza del film sta proprio nell'evitare di porre un confronto tra il mondo laico e il mondo religioso. Tutto si svolge all'interno di un contesto (non solo materiale) confinato, esotico e probabilmente realmente incomprensibile a chi non gli appartiene, ma dove l'amore, il dubbio, il desiderio, la paura e la felicità sono quelli che invece conosciamo tutti nello stesso modo, e dove non mentire a se stessi è il comandamento universale che non dovrebbe conoscere pareti divisorie.
Pur raccontando dall'interno la comunità chassidica, da una distanza si direbbe nulla e sicuramente non critica, la regista sfrutta narrativamente le convenzioni religiose allo stesso modo in cui il cinema in costume sfrutta le costrizioni sociali per enfatizzare il sentimento attraverso la sua compressione forzata, e non dimentica l'umorismo nel tratteggiare le figure del contorno parentale, perché, anche se prende l'avvio da un lutto, Fill the void film è solo e soltanto un film d'amore.
10.4_20.00 Come pietra paziente














Un film di Atiq Rahimi. Con Golshifteh Farahani, Hamid Djavadan, Massi Mrowat, Hassina Burgan Titolo originale Syngué Sabour. Drammatico, durata 103 min. - Francia, Germania, Afghanistan 2012. – Parthenos
Un film sulla femminilità negata interpretato straordinariamente 
Afghanistan. Una giovane donna con due figlie in tenera età assiste in una misera abitazione il marito mujaeddhin, in coma in seguito a uno scontro con un compagno d'armi. La donna deve combattere con la mancanza di denaro e per questo allontana da casa le bambine affidandole a una zia che gestisce una casa di piacere. Da quel momento si sente ancora più libera di confidare al coniuge segreti inconfessabili in precedenza. Quando poi una novità irromperà nella sua vita finirà con il trovare tutto il coraggio.
La 'syngué sabour' nella tradizione popolare afghana è la 'pietra paziente' cioè una pietra magica alla quale è possibile raccontare tutti i segreti, le sofferenze, le difficoltà. La pietra si carica di queste rivelazioni fino a quando si frantuma. Atiq Rahimi nasce come documentarista per poi passare alla scrittura che si trasforma rapidamente in cinema da lui diretto. Se Terre et cendres, dal suo romanzo omonimo, presentato nel 2004 a Cannes ottiene un'ottima accoglienza in Francia, questo Come pietra paziente è destinato a ripercorrerne le orme. 
Letto il libro il famoso sceneggiatore Jean-Claude Carrière ha proposto subito la sua trasformazione in sceneggiatura. La sua lunga frequentazione con il cinema d'autore (da Buñuel a Trueba passando perLouis Malle) gli ha permesso di cogliere il potenziale cinematografico della pagina scritta. Rahimi afferma "L'Afghanistan cristallizza tutte le contraddizioni umane possibili. Per me, oggi è come Star Wars di George Lucas: da un lato, la vita assomiglia a quello del Medioevo (il modo di vestire, le relazioni sociali, i valori religiosi...) e dall'altro dispone degli armamenti più sofisticati del mondo." 
Sono però proprio le vibrazioni prodotte dalle esplosioni che sembrano scuotere irreversibilmente questo mondo, in cui il tempo sembra essersi fermato, a risultare inferiori alla potenza deflagrante del vissuto forzosamente occultato della giovane protagonista. Sostenuto dalla straordinaria interpretazione di Golshifteh Farahani (About Elly) questo personaggio è destinato a rimanere a lungo nella memoria degli spettatori. Perché si tratta di un duello tra due corpi. Uno, quello del marito, immobilizzato nel coma e alimentato in modo rudimentale da una flebo artigianale ma ancora capace di provocare sofferenza nell'altro. Una sofferenza che si fa ricordo di umiliazioni subite in quanto donna, essere inferiore a cui non concedere né ascolto né, tantomeno, affetto. 
Un corpo costantemente coperto che però progressivamente acquista luminosità a partire dal volto grazie a un processo di autoanalisi liberatoria. Un processo che verrà accelerato da un incontro capace di mostrare alla protagonista un aspetto diverso della realtà che non aveva mai potuto sperimentare in precedenza. Un incontro che le permette di rivelare a se stessa una femminilità fino ad allora implosa se non negata. Come la nega quel burqa che quando esce di casa, grazie a un solo gesto divenuto forzosa abitudine la separa dal mondo.
24.4_20.00 In Nomine Satan















Un film di Emanuele Cerman. Con Stefano Calvagna, Federico Palmieri Thriller, durata 96 min. - Italia 2012. - Distribuzione Indipendente
Un dramma generazionale che dilania le vite di giovani e adulti
Due agenti dell'antidroga ritrovano un ragazzo e una ragazza in stato di shock, strafatti di droghe, alcool e psicofarmaci. Quando iniziano le indagini, gli inquirenti scoprono che i due sono coinvolti nell'omicidio di Angela De Rosa, una loro amica. Un massacro privo di logica che porterà alla luce una realtà sino ad allora sconosciuta ai più, quella del satanismo. Gli inquirenti dovranno fare i conti con ulteriori omicidi e ripetute istigazioni al suicidio, sempre attribuibili alla setta. Ispirato a una storia vera (quella delle "bestie di satana"), In Nomine Satan è un dramma generazionale che dilania le vite di giovani e adulti, chiamando in causa anche le responsabilità della società.
8.5_20.00 La bicicletta verde















Un film di Haifaa Al-Mansour. Con Reem Abdullah, Waad Mohammed, Abdullrahman Algohani, Ahd Kame, Sultan Al Assaf Titolo originale Wadjda. Drammatico, durata 100 min. - Arabia Saudita, Germania 2012.
Una conquista dell'indipendenza dal giudizio altrui  

Arabia Saudita, in una scuola rigorosamente solo femminile Wadjda lotta per non soffocare i propri desideri di libertà. In particolare uno di questi riguarda l'acquisto di una bicicletta verde, con la quale potrà essere alla pari del bambino con cui gioca dopo la scuola. La sua famiglia non può permettersela e di certo non vuole che si faccia vedere su un oggetto tradizionalmente riservato agli uomini, così Wadjda comincia a cercare i soldi per conto proprio rendendosi conto ben presto che quasi tutti i metodi per farlo le sono proibiti. L'unica è partecipare ad una gara di Corano della scuola (lei che non eccelle nelle materie religiose), il cui primo premio è in denaro.
Per parlare della vita oggi nel suo paese, degli uomini e delle donne che lo animano e dell'oppressione dell'uomo sull'uomo (o della donna sulla donna), Haifaa Al-Mansour sceglie di rifarsi al modello aulico italiano e raccontare la storia di una bambina, una madre e la ricerca di una bicicletta.
La bicicletta verde del titolo anche in questo caso è simbolo di emancipazione e libertà, l'oggetto che rappresenta una possibile salvezza al sistema al quale altrimenti anche Wadjda sarebbe condannata, come la madre e come le compagne, un sistema fatto di oppressione mentale e personale da parte degli uomini e di gran parte delle altre donne. La conquista dell'oggetto però non passa per l'esplorazione del paesaggio cittadino quanto per un percorso di purificazione e abnegazione, Wadjda diventa così indipendente e libera non per il fatto di andare in bici ma grazie al percorso con il quale arriva a poterla comprare, talmente audace da influire anche sul tradizionalismo subito dalla madre. Una rivoluzione gentile compiuta involontariamente dal solo atto di cercare dei soldi da sola, ottemperando alle regole imposte (la gara di Corano) per scardinarle da dentro.
Haifaa Al-Mansour è la prima vera regista donna di un paese che non ha sale cinematografiche e in cui il cinema si fruisce solo domesticamente, è dunque in sè una figura rivoluzionaria che si oppone ai ruoli cui le donne sono relegate e tale posizione è evidente nella maniera in cui scrive i suoi personaggi. Non solo la protagonista Wadjda ma anche le compagne più adolescenti e più irrequiete, benchè comprimarie, sono accarezzate con tono lieve dalla macchina da presa, scrutate nell'innocenza di gesti minuscoli che portano a condanne spropositate.
Il pregio maggiore di La bicicletta verde è così il saper guardare la realtà e metterla in scena trovando in ogni dettaglio un elemento di oppressione o di ipocrita incongruenza (i tacchi della maestra). Tuttavia, nonostante i più nobili intenti e i più aulici modelli, il film non riesce mai davvero ad appassionare, tocca intellettualmente ma non sentimentalmente. Vittima di un'ideologia inevitabilmente forte e penetrante, è atto d'accusa ma non sempre film, parteggia per i propri eroi ma purtroppo dimentica di scrivergli intorno una storia che ne lasci emergere l'umanità.
Per i temi trattati e il modo di parlare della condizione della donna il film è stato patrocinato da Amnesty Italia.
15.5_20.00 Crash















Un film di David Cronenberg. Con James Spader, Holly Hunter, Elias Koteas, Deborah Kara Unger, Rosanna Arquette. Peter MacNeillYolande Julian,Cheryl SwartsJudah KatzNicky GuadagniRonn SarosiakBoyd BanksMarkus PariloAlice PoonJohn Stoneham Jr.  Drammatico, durata 98 min. - USA 1996.
Un film "disturbante"  che non "si" e non "ci" risparmia niente a rischio anche di un (non si sa quanto) involontario avvitamento su se stesso   

Cronenberg continua la sua esplorazione di un universo allucinato e "perverso". Questa volta prende le mosse da un romanzo di J.G. Ballard in cui un incidente automobilistico dalle conseguenze disastrose sviluppa nei sopravvissuti una pulsione sadomasochistica che li porta a cercare di instaurare un connubio sempre più stretto tra sesso e rischio di morte. L'automobile diviene così escrescenza del corpo umano in cui cercare una soddisfazione "metallica" ai propri desideri. La sceneggiatura prosegue per accumuli che la regia condivide. Si ottiene così un film "disturbante" che non "si" e non "ci" risparmia niente a rischio anche di un (non si sa quanto) involontario avvitamento su se stesso. A Cannes il biglietto d'invito era corredato di un bollino rosso con la dicitura: "Questo film contiene scene che potrebbero turbare la vostra sensibilità".
22.5_20.00 Nella casa














Un film di François Ozon. Con Fabrice Luchini, Ernst Umhauer, Kristin Scott Thomas, Emmanuelle Seigner, Denis Menochet. Bastien UghettoJean-François BalmerYolande MoreauCatherine DavenierFabrice ColsonStéphanie CampionDiana Stewart  Titolo originale Dans la maison. Drammatico, durata 105 min. - Francia 2012.
Professore e studente tra realtà, finzione e manipolazione reciproca: una commedia drammatica seducente e sarcastica 

Il cinquantenne Germain (Fabrice Luchini) è professore di letteratura presso il Liceo Flaubert (!) in una cittadina francese. È un docente competente, ma è anche uno scrittore mancato perché carente di talento. Jeanne (Kristin Scott Thomas), sua moglie, gestisce una galleria di arte moderna. All'inizio dell'anno scolastico Germain viene favorevolmente impressionato dalla qualità dell'elaborato del sedicenne Claude (Ernst Umhauer), un bel ragazzo di umili origini, che sembra timido. Il testo, fluido e sottilmente sarcastico, racconta l'amicizia con Rapha (Bastien Ughetto), un compagno di classe che ha suscitato il suo interesse perché appartiene a una famiglia piccolo borghese, apparentemente "perfetta". Ciò che intriga Germain e Jeanne (coinvolta dal marito) è la chiosa finale del tema: 'continua'. Affascinato dallo spirito di osservazione dello studente, Germain lo stimola a continuare a scrivere. Claude si insinua abilmente in seno alla famiglia del compagno, e diventa un habitué nella bella villetta. Quindi, settimanalmente, consegna a Germain le puntate di un'avvincente cronaca voyeuristica in cui descrive i dettagli "sorprendenti" di quel contesto. Dagli episodi narrati (e mostrati visivamente) emergono i problemi lavorativi del padre di Rapha (Denis Ménochet), un impiegato entusiasta della Cina e amante del basket, che pratica con il figlio, ma anche l'attrazione (fantasie e atti) di Claude nei confronti di Esther, la madre dell'amico (Emmanuelle Seigner), una donna molto attraente, interessata unicamente alla decorazione di interni. I racconti di quella intimità "normale" (e le imprevedibili svolte del plot) appassionano Germain che sviluppa una stretta relazione con l'allievo che, a sua volta, ne è lusingato. Il professore corregge la prosa dello studente, ma lo consiglia anche su come agire praticamente e ne diventa complice di intrighi, affinché la storia narrata continui. Una vicenda scandita da un ritmo teso e seducente fino al magnifico finale.
È una commedia drammatica, spiritosa e intelligente, che si sviluppa come un thriller con risvolti dark più che inquietanti. Scritta dallo stesso regista con uno stile incisivo e con dialoghi taglienti, adatta brillantemente "El chico de la última fila", una pièce teatrale del drammaturgo spagnolo Juan Mayorga. Ozon ripropone la sua abilità nel far emergere aspetti infausti da situazioni apparentemente ordinarie. All'inizio del film realtà e finzione appaiono ben distinte, ma poi, progressivamente, tutto si mescola e si confonde, in un gioco di apparenze e di macchinazioni divertenti e sinistre, con una perfetta combinazione di suspence e intrattenimento, anche grazie alle magnifiche performances di tutti gli attori. È evidente il riferimento a temi e suggestioni di altri maestri: in primis Chabrol e Buñuel, ma anche Rohmer e Haneke. In realtà Ozon riflette sul processo di immaginazione e di creazione narrativa. Il rapporto fra Germain e Claude evoca la manipolazione dello scrittore nei confronti del lettore o quella (reciproca?) dell'editore verso l'autore o del produttore verso il regista. In effetti il regista ha dichiarato di aver voluto sfruttare una chance per parlare indirettamente delle problematiche del suo lavoro, collocando lo spettatore all'interno del processo artistico.
29.5_20.00 Song of silence














Un film di Chen Zhuo. Con Li Qiang, Yin Yaning. Drammatico, durata 114 min. - Cina 2011. - Distribuzione Indipendente
Complicate problematiche familiari 

Jing è un'adolescente sordomuta, affidata alla madre dopo il divorzio dei genitori. Abita in un villaggio di pescatori con il nonno e lo zio materno perché non vuole vivere con la madre ed il suo amante, con il quale non va d'accordo. Trascura gli studi e cerca costantemente rifugio nella barca del giovane zio, l'unica persona con la quale si sente a proprio agio e dalla quale si sente amata. Il rapporto tra i due giovani finisce per oltrepassare i limiti della moralità comunemente accettata e Jing è costretta ad andare a vivere in città con il padre Zhang Haoyang. Funzionario del locale ufficio di polizia, Zhang è uno sciovinista che non ama la figlia ed è ossessionato dal desiderio di avere un figlio maschio. Quando la sua amante Mei - giovane musicista indipendente e ribelle - rimane incinta, Zhang la porta a vivere con sé e con la figlia. Il rapporto tra due donne così diverse - una che non sente e l'altra che vive di musica - con il passare del tempo si trasforma da ostilità e diffidenza a comprensione e solidarietà. Zhang si illude di poter creare una nuova famiglia ma avvenimenti drammatici lo riportano bruscamente alla realtà e lo costringono ad esaminare se stesso come uomo e come padre...
La storia è basata su fatti realmente accaduti ed è ambientata nello Hunan, provincia natale del regista; interpretato in modo estremamente convincente da attori per lo più non professionisti che parlano nel dialetto locale, il film ha avuto una gestazione di due anni. 
La regia di una storia apparentemente semplice ma nella quale si intrecciano complicati problematiche familiari, sentimentali ed esistenziali dimostra una maturità singolare per un esordiente. Sin dalle prime immagini infatti il film riflette una sensazione profonda di isolamento e di solitudine; quella di Jing, il cui deambulare in maniera incerta sui binari della ferrovia in cerca di qualcosa di elusivo è accompagnato in modo discreto dalla macchina da presa, e quella di Mei, la giovane amante del padre che sembra essere sempre di corsa e pronta a combattere, come se la vita fosse una lotta perenne. La vita delle due giovani sembra correre su binari paralleli e la loro solitudine esistenziale riflessa l'una nell'altra. Si percepisce in modo dolorosamente acuto anche la sensazione d'impotenza della madre che non sa come aiutare sua figlia, e l'incapacità del padre di rapportarsi in modo responsabile ed adulto al mondo femminile. Mentre la distanza tra gli ideali e la realtà nella società contemporanea cinese sembra quasi esemplificata dall'innocenza del rapporto incestuoso tra Jing e lo zio, e da quello più tormentato di Mei con la maternità. Il castello di illusioni che il padre di Jing ha costruito - e che è genialmente rappresentato dalla scena in cui i tre protagonisti giocano a costruire una torre in precario equilibrio, che finisce inevitabilmente per crollare - non può resistere all'assedio della realtà. La poesia delle scene sul fiume soffuso di luce azzurra, dove Jing e lo zio pescatore si incontrano, lascia il posto all'immagine della silhouette di lei e poi del padre che in due scene parallele si ritrovano, soli, sulla banchina del fiume a guardare in lontananza la città sulla sponda opposta. Ed in tal modo il film acquista una sottile valenza politica. 
26.6_20.00 Carta Bianca















Un film  di  Andrés  Arce  Maldonado, Andrea Zauli. Con Mohamed Zouaoui, Tania Angelosanto, Patrizia Bernardini. Drammatico, durata 90 min. - Italia 2013. - Distribuzione Indipendente

Tre ritratti duri, composti in uno stile secco, da fredda denuncia sociale, che si scalda nella travolgente sequenza finale 

Tre storie che si incrociano a Roma, nella notte tra un sabato e una domenica, alla vigilia di San Valentino. Kamal è un giovane tunisino amante dei libri. Sogna di diventare italiano, perciò si fa chiamare Sandro, ma non ha il permesso di soggiorno e spaccia droga per sopravvivere. Vania è una bella badante moldava, timida e religiosa, tormentata dalle allucinazioni del suo recente passato di prostituta da marciapiede. Lucrezia è una grintosa e spavalda imprenditrice romana, che ama solo il suo cane e vive per la propria azienda, che ultimamente ha problemi di liquidità, spingendo la donna tra le grinfie di un usuraio. Nessuno dei tre lo sa, ma ciascuno di loro cambierà la vita degli altri.
Tre vite a un bivio, colte in un momento di scelte estreme da compiere. Presa una strada, è impossibile tornare indietro. E sulla stessa strada asfaltata si incroceranno le tre storie parallele di Kamal, Vania e Lucrezia, in un Roma che non ha nulla da spartire con le immagini da cartolina in cui è stata più volte immortalata. La Roma di Kamal, Vania e Lucrezia è una città che ha il grigiore e la durezza tipici delle tante periferie contemporanee, là dove i turisti non si spingono e gli ultimi lottano per una briciola di pane. La Roma delle tangenziali, dei capannoni industriali e degli alloggi di fortuna, neri come un tunnel in cui puoi solo correre a più non posso, per cercare la fine e la luce. Una luce che per Kamal ha il colore bianco del permesso di soggiorno, per Vania il risveglio dall'incubo della prostituzione, per Lucrezia la salvezza della propria azienda. Ma, quando si è disposti a tutto pur di raggiungere il proprio obiettivo, e con esso il proprio posto nel mondo, il prezzo da pagare è sempre troppo alto. E quando l'unico mezzo per la felicità sembra essere il denaro, ecco che questo si trasforma in una personale condanna all'infelicità.
Sono tre ritratti duri, quelli composti dal regista Andrés Arce Maldonado, colombiano trapiantato a Roma. Tre ritratti dallo stile secco, spietato, senza tenerezza, neppure in quei pochi sprazzi di umanità che emergono dal ricordo di una madre ammazzata, di un nipotino a cui mandare i soldi, di un amore perduto. È un mondo arido, cinico, disilluso, egoista, abitato da solitudini incapaci di amare. Un mondo dove vince solo il più forte, dove un gesto di generosità non è concesso perché renderebbe deboli e farebbe soccombere. Proprio come accade al senegalese amico di Kamal, che, anteponendo l'amicizia al proprio interesse, è l'unico personaggio positivo del film, ma non ne esce vittorioso. Al contrario, per non soccombere, i tre protagonisti compiono gesti estremi, che comportano l'abbandono di ogni riserva morale. Il regista li guarda agire senza condannarli, ma neppure giustificarli. Imbastendo una fredda denuncia sociale, che si scalda di colpo, con forza, nella travolgente sequenza finale, su quell'asfalto ruvido dove si compie il destino dei tre protagonisti.
Carta bianca non è soltanto il racconto delle difficoltà dell'immigrazione e della clandestinità, delle cocenti delusioni scontate da chi è costretto a svegliarsi bruscamente dal sogno occidentale e si ritrova a dover scegliere tra la fame e la perdita della propria integrità morale e della propria coscienza. Carta bianca è soprattutto il racconto della malattia che appesta il nostro mondo, il racconto della paura che domina il rapporto tra noi e gli altri. Quella paura che va ben oltre il razzismo. E che ci rende schiavi dell'indifferenza e della solitudine.

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